L’ennesimo ritorno & vi presento Wattpad

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Buonasera a tutti!

Dopo un periodo di lunga (lunghissima!) assenza, sono tornata a scrivere su questo blog, semplicemente perché ci tengo a immettere la mia opinione nel caos della società civile; sia mai che – pur essendo un chicco di riso – basti a far pendere la bilancia.

Non voglio annoiarvi oltre con il mio ritorno, dal momento che se concentrassi questo post solo su di esso la bacheca diventerebbe una sequela interminabile di “sono tornata!” “ehi, eccomi di nuovo!” “Salve gente, mi si è rotto il Tardis ma alla fine ce l’ho fatta!”, quindi passo a parlarvi di un sito che mi è diventato particolarmente caro in questi ultimi mesi.

Si tratta – e forse la conoscerete – di Wattpad, la celebre piattaforma dedicata alla scrittura.

La cosa bella di Wattpad, se si eccettua la sua simpatica classifica che mannaggialdemonio viaggia secondo un algoritmo imprevedibile e causa spesso reflussi biliari agli iscritti, è senza dubbio la facilità di interazione con altri utenti.

La grafica è accattivante e l’uso è piuttosto intuitivo; soprattutto, si trovano autori veramente validi. Sono molto contenta delle “amicizie online” che ho iniziato a costruire, perché si tratta di conoscenze basate sull’amore per la letteratura e la scrittura. In questo mi sento di consigliarlo rispetto al più antico EFP, benché rispetto a quest’ultimo i suoi difettucci li abbia.

Ovviamente troverete così tante storie mal scritte da farvi sentire come terremoti i sommovimenti sotterranei di tutti gli scrittori che si sono scomodati a rivoltarsi nella tomba; ormai nella mia testa quei poveretti hanno creato linee di faglia proprie.

Questo succede perché, per alcuni, Wattpad è l’uscita di sicurezza verso una pseudo-notorietà (ma di quella elitaria, perché non sei uno youtuber, sei uno scrittore, e che diamine!) o forse perché l’uomo è umano e l’adolescenza è adolescente (Lapalisse sarebbe d’accordo). Forse succede semplicemente perché molte persone non sanno la grammatica.

L’altro dramma – secondario a questo – è che si spamma con tale facilità che questi scrittori dall’analfabetismo inveterato in genere sono anche quelli in cima alla catena alimentare.

In pratica, se non siete i tipi da farvi il sangue marcio per le suddette cose e amate scrivere, vi consiglio con decisione questo sito.

Se siete già wattpadiani (il termine sembra indicare una razza di alieni) e vi va di fare due chiacchiere il mio profilo è questo: https://www.wattpad.com/user/blackcarson

Ci tengo solo a dirvi che non è nel mio carattere darvi retta se chiedete voti in cambio di voti o cose simili: se volete la mia opinione sulla vostra storia mi basta che lo chiediate con gentilezza. Non vi chiederò nulla in cambio e mi limiterò a votare la vostra storia solo nel caso in cui mi piacesse.

Ciao a tutti, grazie per aver letto!

Gre

 

Disegno non mio, non ne conosco l'autore

Disegno non mio, non ne conosco l’autore

Back to the blog

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Fanciulli e fanciulle, sono tornata! Con qualche esame in più alle spalle, qualche libro letto in più nella capoccia e qualche pagina di troppo sui miei taccuini (aggiungiamoci anche che ho qualche nuova ossessione da ammassare su quelle che avevo già. “A song of ice and fire” e la totalità delle puntate di “Friends”, per citarne un paio).

Cercherò di non andarmene tanto presto.

A volte mi è molto difficile capire cosa mi passa per la testa, ma devo confessare – per quanto insensato possa sembrare – che gran parte del mio ritorno è dovuto al fatto di essermi riappropriata del mio vecchio computer. Due fatti che nel buonsenso comune dovrebbero rimanere abbastanza distanti fra di loro, ma tant’è.

Il fatto che io abbia di nuovo il mio computer è a sua volta dovuto alla momentanea capitolazione della mia pigrizia, grazie alla quale sono riuscita a muovere il paniere e ad andare a comprare, dopo ben sei mesi, il quarto caricabatterie compatibile con il mio Acer, dato che nel corso degli anni ne ho fusi ben tre, come ho già detto da qualche parte.

Uno l’ho anche aperto e ho cercato di aggiustarlo con una saldatrice, ma questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta.

Ad ogni modo e maniera, in questo periodo di eremitaggio ho cercato di essere meno prolifica ma più puntuale nella mia scrittura (per “puntuale” intendo “che centra il punto”, perché nel suo significato comune è un termine che mai oserei associare alla mia persona), con scarsi risultati se non che ho definito un po’ meglio certe mie opinioni riguardo alla parola e all’uso che se ne fa. Mi sono imbarcata in qualche nuova avventura letteraria di cui prima o poi parlerò qui, un po’ per vanità un po’ perché buttare di fronte a una presunta audience le proprie idee secondo me serve a chiarirsele.

Spesso mi sento come se stessi cercando di riaddomesticare la parola tutto da capo, da quanto ribrezzo mi ha preso per certe cose che ho scritto. Penso sia una sensazione abbastanza comune. Completamente a caso, vi lascio le prove dei miei tentativi di riaddomesticare anche la tavoletta grafica.

Donna D'Argillacpersona a caso

Sì, lo so che una è inquietante e l’altra sembra appena tornata da una notte brava a base di oppio, ma noi esseri umani banali e irregimantati dobbiamo sempre far vedere i nostri panni sporchi al mondo.

Brandello senza titolo

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Il tuo nome è camuffato in ogni lettera

così da simulare confusioni che non sento.

Lo chiami amore, questo?

Non è che un pallido ritaglio

inventato per aggiustare il tempo.

 

 

Indovinate un po’ perché non scrivo? Studio. Intanto vi lascio questa cosa per farvi (e farmi) sapere che sono viva. Fra qualche tempo tornerò con una recensione, una ricetta di cucina e forse anche qualcosa di attualità.

Non riesco quasi mai a liberarmi dell’idea che tutto ciò che scrivo verrà mal interpretato. Ma pensandoci su non credo che sia roba su cui soffermarsi a tal punto da generare addirittura una mal interpretazione. Comunque vada, bisognerebbe esserne grati: ogni buona idea non è che una gigantesco fraintendimento.

P.S: la foto è di Doisneau, se non si fosse capito dal tag “Doisneau”.

 

Giorni di spasimato amore

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giorni_di_spasimato_amore

Giorni di spasimato amore

E in quel modo volle prenderlo, come un travolgimento, una tempesta, una cosa che poi, così com’era arrivata, se ne sarebbe pure andata via. Dentro di sé dovette pensare che tutto, a parte Lucia, era solo un passaggio breve, una parentesi”

                            “Giorni di spasimato amore”, Romana Petri

Ci sono storie che sono come dipinti e altre che sono come film.

Ogni tanto, poi, s’incappa in storie che non sono nessuno dei due, in cui tutte le parole – al posto giusto, devono essere, dalla prima all’ultima – cuciono un non-luogo, dove la vicenda ha il respiro e le movenze di ciò che è vivo e la forma in cui ci viene consegnata è qualcosa di più del realismo.

Adesso è inutile dirvi che questo libro è scritto così, perché in caso contrario non avrei esordito con questa frase.

Il primo pensiero coerente che ho avuto quando ho iniziato “Giorni di spasimato amore” è stato: “Che bel colore hanno queste parole”. Il primo che ho fatto quando l’ho finito è stato che me lo ero immaginato come un cartone animato con i disegni di Enzo D’Alò, ma non so se questo conti come coerente.

Se mancassimo di tempo, comunque, potremmo dire semplicemente che in questo libro abbiamo un balconcino affacciato sul Golfo di Napoli e Antonio, un uomo stanco e innamorato.

Il passo a due ha di rischioso che il proprio equilibrio si modifica per lasciare spazio a qualcun altro: si ha un nuovo baricentro, un nuovo corpo con cui le leggi della fisica si affrontano in maniera differente, e se uno dei due ballerini molla all’improvviso la presa l’altro cade. Succede lo stesso nella chimica: se due atomi fanno parte di un legame covalente posso sottrarne uno spesso pagando il prezzo di rendere instabile l’altro, e questo avrebbe dovuto saperlo anche il dottore riduzionista che tenta di mediare una pace – che in realtà sarà solo una tregua momentanea – tra la lista dei fatti e l’anima di Antonio.

Così Antonio si è innamorato, ha perso la sua Lucia ed è uscito pazzo.

La realtà che ci racconta Romana Petri, però, è molto più poetica e salvifica, e ci conforta su quanto l’uomo abbia bisogno dell’arte: non per rifiutare la realtà, ma per farla entrare nella dimensione del fantastico, per ricavarne i significati e interrogarci sui suoi misteri come Antonio fa con i telegrammi altrui, che ogni giorno vengono inviati dall’ufficio postale e che lui pazientemente colleziona su un quadernetto.

Così quella di Antonio non è più una pazzia, ma una frase di Shakespeare portata all’estremo: “Love is not love, which alters when it alteration finds”, e Antonio stesso è così, un po’ eschileo: un eroe di quelli che hanno come propria arma l’assoluto, che vengono tenuti in piedi da quel loro tenere la posizione. Ma è anche un eroe figlio del novecento e del dubbio, e pur non avendone di dubbi su quel che vuole, lui, fa tenerezza in noi per la sua mancanza di incertezza.

Antonio è un uomo il cui tempo è stravagante, che vive le primavere come fossero estati e le estati come se fossero inverni, le cui stagioni si alternano senza che gli anni passino; un Don Chichotte a modo suo vittorioso perché almeno dentro di sé ha piegato quella realtà spezzettata, aguzza, che ridotta com’è proprio non si può accettare. È una vittoria malinconica forse più per il lettore che per lui.

È il 4 marzo 1943, come nella canzone di Dalla che un po’ fa da colonna sonora a questa storia e un po’ chiude il cerchio, quando Antonio incontra Lucia andando alla borsa nera. Butta troppe emozioni, troppa sensibilità e troppi sogni nella fornace di quel sentimento totalizzante per non perdere sé stesso quando perde lei.

Ammesso poi che Antonio abbia perso qualcosa, perché lui come tutte le persone risponde alle sue proprie leggi: ha in sé una vicenda di nostalgia, di ritorno circolare al punto in cui aveva Lucia, finché quel tempo e il tempo di Antonio non combaciano di nuovo e Lucia non se n’è mai andata, era solo nell’altra stanza.

Le premure della madre Silvana, l’amore di Teresa – per Antonio impossibile da corrispondere – non sono altro che passaggi, fluttuazioni di un corso degli anni che non gli appartiene e di cui neppure tiene il conto.

Il conto lo devi tenere tu, scoprire che di botto è il 1971 e che dopotutto questo è irrilevante, come irrilevante è stato tutto quello che è successo in quei ventotto anni a parte il ritorno di Lucia.

Persino il matrimonio tra Antonio e Teresa, voluto da una Silvana in punto di morte, non è che una misura momentanea: un evento che gli è capitombolato addosso, ma che non può impedire l’appuntamento di Antonio col mare, che lui per tutti quegli anni ha continuato a guardare dal suo balconcino.

Commoventi le dinamiche – accidens per Antonio, piene di valore letterario e umano per chi legge – che si creano tra Antonio e sua madre, tra Antonio e sua moglie.

Il bello di questi personaggi è che non ti rendono la vita facile: ce la saremmo potuta cavare con un solo personaggio sopra la media e una quantità indefinita di macchiette dal punto di vista del lettore ottuse e poco sensibili, il cui ruolo principale sarebbe stato non capire Antonio. E invece no.

Invece abbiamo tutto un contorno di personaggi vibranti, in cui il comportamento di Antonio non si limita a generare incomprensione ma una selva di sentimenti anch’essi da indagare, con cui chi legge si deve confrontare al di là dei contrasti che queste figure inevitabilmente evocano se accostate ad Antonio.

Sono giorni di spasimato amore anche per gli altri. Amano, anche loro, e sono amori attraverso i quali non si parla solo d’amore. Non è solo la storia a valere la pena di essere raccontata, ma il modo in cui l’autrice ci conduce al suo interno tramite un mosaico di eventi che così tanto viaggiano nel tempo da perdere il conto degli anni anche noi, e si rimane con il mare come unico punto di riferimento.

Questo è un libro – e mi compiaccio del fatto che sia contemporaneo – in cui il modo di consegnare il contenuto a chi legge è il contenuto stesso, e questo fatto in un romanzo dalla densità di concetti notevole e dalla leggiadria ammirevole.

Qui il tempo si è preso una pausa e ha ritagliato via dal resto il balconcino da cui Antonio si affaccia e guarda l’orizzonte così continuo, così concentrato da essere infinito, e da lettori si ha il privilegio di guardarlo assieme a lui.

Il panorama letterario è sovraffollato di vita a compartimenti stagni, dove se si parla di morte si disseziona un po’ penosamente l’idea che ci si è fatti della morte, e se si parla d’amore si sbuccia l’idea che ci si è fatti dell’amore.

In questo libro ho trovato la bellezza di una scrittura ampia, che non ha paura di amalgamare l’amore e la morte alla vita, nella disarmante consapevolezza della loro indivisibilità.

Quella di Antonio è la storia di un uomo che ama, talmente particolare lui e talmente particolare la storia da non lasciarsi rintracciare nelle nostre vite. Eppure, come per un trucco di magia, Romana Petri parla all’universale raccontando l’unico, e qui sta la forza del suo romanzo, nello stesso modo in cui sta in tutte le storie degne di essere ricordate.

Se potessi parlare con l’autore gli chiederei… Di raccontarmi come sarebbe stata la storia se fosse morto Antonio anziché Lucia. Ma forse non glielo chiederei davvero: di solito se i libri sono scritti come sono scritti c’è una ragione.

Se vi è piaciuto questo libro… Non c’è ragione per cui non dobbiate amare “Il postino di Neruda” di Antonio Skàrmeta. Apparentemente non c’entra nulla e questo consiglio vi sembrerà una distrazione letteraria, ma se c’è una cosa sacrosanta che ho letto in un libro di Susanna Tamaro è che spesso è la distrazione a portare al centro delle cose.

 

 

I souvenir del viaggio

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Altra poesia per simpatia, con un piccolo omaggio a Epitteto.

Parola mia (non vi fidate) entro oggi o domani dovrei finire il commento ad un libro tra “Giorni di spasimato amore” di Romana Petri, “Tifone” di Joseph Conrad e “Sogni di sogni” di Antonio Tabucchi. La decisione sarà probabilmente casuale, visto che tutte e tre sono più o meno allo stesso punto.

Nota a priori: il quadro, come probabilmente saprete, è di Vincent Van Gogh.

 

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I souvenir del viaggio

 

Quando la tua nave chiamerà

Porta con te lo sguardo di tua madre

Porta il riflesso dolce della sera

E le campane, e il tuo giorno migliore.

Prendi con te una noce o una conchiglia

Ricalca con le labbra una canzone

E prega la memoria che ti renda

Quel sorriso lontano, e quelle ciglia.

La sabbia fine del tuo ultimo passo

Raccogli anche quella – ti servirà.

Saluta tutti quelli che hai amato

e gli amici, se ne hai.

Baciali: il tuo bacio, non altro,

è ciò che lascerai a terra.

Quando la tua nave giungerà

non attardarti troppo a lungo.

Metti nel tuo bagaglio ogni battesimo

Quello del mare, del primo perdono

la prima volta che hai detto “io sono”.

Preso il fagotto, raccolto il coraggio

Smarrirai tutto salendo le scale

Ma poco importa: potrai andare.

 

 

Domenica

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Una facezia. Dimenticatevi che l’ho scritta dopo averla letta: ho dormito meno di sei ore e non rispondo delle mie azioni.

Tra l’altro non corrisponde neanche a questa domenica, che è quella di Pasqua ed è pure stata allegra per essere – appunto – una domenica. Grammar-nazi, vieni e arrestami per l’ignobile quantità di ripetizioni che faccio.

 

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Domenica

 

Mi tormenta la mia opacità

la mia bassezza senza senno

in quei giorni ad ogni alba

sussulto al sussurrar di Borges:

“Ho commesso il peggiore dei peccati…”

 

 

 

 

Il giorno in cui un ragazzo che non conoscevo mi ha trovato in mutande sul divano di casa sua

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Visto che ancora non ho pronta nessuna nuova recensione (anche se ne ho iniziate quattro o cinque) e non mi garba postare nient’altro, tornerò alle mie debacle sociali con il secondo pezzo per la rubrica “Il giorno in cui…”
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Il mio uomo del giovedì sera (ho solo quello ed è il mio ragazzo, niente “morally-bankrupted Greta” all’orizzonte) mi aveva invitato a casa sua, il che è regolare e avviene più o meno tutte le settimane, un po’ come l’allerta meteo a Genova.

Quel giovedì in particolare, i due eventi sopracitati erano concomitanti, ma vista la deludente mancanza di pioggia per tutta la giornata ce n’eravamo dimenticati. Lo so che l’assenza del diluvio universale avrebbe dovuto insospettirmi, ma che razza di storia sarebbe se la protagonista avesse anche solo un briciolo di senno di poi?

Nel momento in cui J.ean ha tentato di riaccompagnarmi a casa, in memoria del Ragionier Ugo Fantozzi è venuta giù una ramata d’acqua assolutamente definitiva.

Distavamo da casa mia ancora poco meno di un chilometro, e forse era la gran quantità d’acqua che creava una distorsione spazio-temporale attorno a noi, non so, però mi sembrava che tra noi e la nostra meta ci fosse la Cina tutta.

Insomma, se la montagna non va da Maometto magari Maometto rinuncia e se ne torna in casa al calduccio. Noi abbiamo fatto retrofront.

Il cielo genovese è bloccato in un limbo adolescenziale permanente, e i suoi improvvisi sbalzi d’umore sono accompagnati da una certa instabilità estetica. Metaforicamente, dunque, era come se un suo enorme brufolo mi fosse appena scoppiato addosso.

Ero fradicia.

In un patetico tentativo di non prendere il mal sottile e di non finire come Violetta (quella della Traviata, non quella della telenovelas), mi sono tolta i pantaloni e li ho messi ad asciugare sul calorifero, poi mi sono rannicchiata sul divano.

Premessa: io non avevo mai incontrato i coinquilini di J.ean. Mai, neppure una volta.

Il che spiega perchè quando ho sentito il rumore delle chiavi nella toppa non abbia avuto un pensiero preciso quanto una sorta di quieto panico. Il quieto panico è una cosa mia personale, ovvero il momento in cui mi accorgo che sì, sta proprio andando tutto al diavolo, ma non faccio niente per arginare il danno.

E’ la pigra contemplazione di una gamma di eventi che spaziano dall’imbarazzante al terribile.

J.ean era in cucina, quindi io ero sola davanti all’inevitabile, e per di più sono bravissima a peggiorare le cose.

Quando ho visto la porta aprirsi, anziché cercare di coprirmi con la maglietta sono balzata in piedi come un gatto a cui avessero pestato la coda, con la mano già tesa in avanti.

La faccia del ragazzo appena entrato era impagabile. Ho considerato l’idea di farla replicare da un’amica che studia recitazione, poi ho capito che nessuna ragazza può fare sua l’espressione di un ragazzo che entra in casa propria e trova sul suo divano una ragazza seminuda che non conosce.

Io non ho trovato niente di meglio da dire che: «Piacere, Greta.»

In lui a quel punto è scattato qualcosa, come se io gli avessi detto “comportiamoci come se io fossi normale” e lui mi avesse dato retta. Per cui mi ha detto, visibilmente soffocando le risate ma per il resto apprezzabilmente impassibile: «Piacere, S.imone.»

Avessi saputo la gran quantità di figùr demmerd che avrei fatto da lì in avanti con i coinquilini di J.ean, forse non avrei riso così tanto una volta uscita dall’appartamento.

Pensiero nerudiano

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Ho scoperto che se leggo abbastanza – troppo – Neruda, dopo vengo colta dall’irrefrenabile desiderio di scrivere poesie, di stampo vagamente nerudiano pure loro nonché piuttosto bruttine.

E’ matematico, ogni tre poesie di Neruda una manciata di versi.

Segue poi, puntuale come un orologio, la nausea di non essere riuscita a dire quello che volevo. Ma tenete, vi regalo tutto: come diceva Cyrano “Tutto quello che mi viene, ve lo getterò a mazzi, senza farne un bouquet”.

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Pensiero nerudiano

Ed eri bello come casualmente

privo di scuse e di promesse

disadorno d’ansia e d’ogni pianto

mi beavo piano del tuo esistere

del tuo essere sorriso e poco altro

Tutta la vita, amore” ti dicevo

e ci svuotammo al primo ansito di luce.

N.B: La bella statua è di Auguste Rodin. Non mia. Di Rodin.

 

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WordPress mi costringe a mettere un titolo

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Questo è un personaggio della mia Grande Storia, ovvero quella storia che dico di scrivere da otto anni ma che in realtà sta in un cassetto a prendere polvere, nell’attesa che si compia la beata speranza e io diventi molto molto brava a scrivere, così da sentirmi pronta per affrontare Il Colosso.
Ad ogni modo, questo è stato l’ultimo disegno che sono riuscita a fare con la graphic tablet prima che il caricabatterie del mio computer si fondesse e io mi vergognassi troppo per andare a comprare il quarto nel giro di un anno.
Al momento sto usando il computer di mia sorella. Non oso installarci sopra un altro programma perché è come una piramide di cheerleaders denutrite con sopra Oprah: non sai mai quando potrebbe crollare.
Quindi al momento niente graphic tablet.