Giorni di spasimato amore
“E in quel modo volle prenderlo, come un travolgimento, una tempesta, una cosa che poi, così com’era arrivata, se ne sarebbe pure andata via. Dentro di sé dovette pensare che tutto, a parte Lucia, era solo un passaggio breve, una parentesi”
“Giorni di spasimato amore”, Romana Petri
Ci sono storie che sono come dipinti e altre che sono come film.
Ogni tanto, poi, s’incappa in storie che non sono nessuno dei due, in cui tutte le parole – al posto giusto, devono essere, dalla prima all’ultima – cuciono un non-luogo, dove la vicenda ha il respiro e le movenze di ciò che è vivo e la forma in cui ci viene consegnata è qualcosa di più del realismo.
Adesso è inutile dirvi che questo libro è scritto così, perché in caso contrario non avrei esordito con questa frase.
Il primo pensiero coerente che ho avuto quando ho iniziato “Giorni di spasimato amore” è stato: “Che bel colore hanno queste parole”. Il primo che ho fatto quando l’ho finito è stato che me lo ero immaginato come un cartone animato con i disegni di Enzo D’Alò, ma non so se questo conti come coerente.
Se mancassimo di tempo, comunque, potremmo dire semplicemente che in questo libro abbiamo un balconcino affacciato sul Golfo di Napoli e Antonio, un uomo stanco e innamorato.
Il passo a due ha di rischioso che il proprio equilibrio si modifica per lasciare spazio a qualcun altro: si ha un nuovo baricentro, un nuovo corpo con cui le leggi della fisica si affrontano in maniera differente, e se uno dei due ballerini molla all’improvviso la presa l’altro cade. Succede lo stesso nella chimica: se due atomi fanno parte di un legame covalente posso sottrarne uno spesso pagando il prezzo di rendere instabile l’altro, e questo avrebbe dovuto saperlo anche il dottore riduzionista che tenta di mediare una pace – che in realtà sarà solo una tregua momentanea – tra la lista dei fatti e l’anima di Antonio.
Così Antonio si è innamorato, ha perso la sua Lucia ed è uscito pazzo.
La realtà che ci racconta Romana Petri, però, è molto più poetica e salvifica, e ci conforta su quanto l’uomo abbia bisogno dell’arte: non per rifiutare la realtà, ma per farla entrare nella dimensione del fantastico, per ricavarne i significati e interrogarci sui suoi misteri come Antonio fa con i telegrammi altrui, che ogni giorno vengono inviati dall’ufficio postale e che lui pazientemente colleziona su un quadernetto.
Così quella di Antonio non è più una pazzia, ma una frase di Shakespeare portata all’estremo: “Love is not love, which alters when it alteration finds”, e Antonio stesso è così, un po’ eschileo: un eroe di quelli che hanno come propria arma l’assoluto, che vengono tenuti in piedi da quel loro tenere la posizione. Ma è anche un eroe figlio del novecento e del dubbio, e pur non avendone di dubbi su quel che vuole, lui, fa tenerezza in noi per la sua mancanza di incertezza.
Antonio è un uomo il cui tempo è stravagante, che vive le primavere come fossero estati e le estati come se fossero inverni, le cui stagioni si alternano senza che gli anni passino; un Don Chichotte a modo suo vittorioso perché almeno dentro di sé ha piegato quella realtà spezzettata, aguzza, che ridotta com’è proprio non si può accettare. È una vittoria malinconica forse più per il lettore che per lui.
È il 4 marzo 1943, come nella canzone di Dalla che un po’ fa da colonna sonora a questa storia e un po’ chiude il cerchio, quando Antonio incontra Lucia andando alla borsa nera. Butta troppe emozioni, troppa sensibilità e troppi sogni nella fornace di quel sentimento totalizzante per non perdere sé stesso quando perde lei.
Ammesso poi che Antonio abbia perso qualcosa, perché lui come tutte le persone risponde alle sue proprie leggi: ha in sé una vicenda di nostalgia, di ritorno circolare al punto in cui aveva Lucia, finché quel tempo e il tempo di Antonio non combaciano di nuovo e Lucia non se n’è mai andata, era solo nell’altra stanza.
Le premure della madre Silvana, l’amore di Teresa – per Antonio impossibile da corrispondere – non sono altro che passaggi, fluttuazioni di un corso degli anni che non gli appartiene e di cui neppure tiene il conto.
Il conto lo devi tenere tu, scoprire che di botto è il 1971 e che dopotutto questo è irrilevante, come irrilevante è stato tutto quello che è successo in quei ventotto anni a parte il ritorno di Lucia.
Persino il matrimonio tra Antonio e Teresa, voluto da una Silvana in punto di morte, non è che una misura momentanea: un evento che gli è capitombolato addosso, ma che non può impedire l’appuntamento di Antonio col mare, che lui per tutti quegli anni ha continuato a guardare dal suo balconcino.
Commoventi le dinamiche – accidens per Antonio, piene di valore letterario e umano per chi legge – che si creano tra Antonio e sua madre, tra Antonio e sua moglie.
Il bello di questi personaggi è che non ti rendono la vita facile: ce la saremmo potuta cavare con un solo personaggio sopra la media e una quantità indefinita di macchiette dal punto di vista del lettore ottuse e poco sensibili, il cui ruolo principale sarebbe stato non capire Antonio. E invece no.
Invece abbiamo tutto un contorno di personaggi vibranti, in cui il comportamento di Antonio non si limita a generare incomprensione ma una selva di sentimenti anch’essi da indagare, con cui chi legge si deve confrontare al di là dei contrasti che queste figure inevitabilmente evocano se accostate ad Antonio.
Sono giorni di spasimato amore anche per gli altri. Amano, anche loro, e sono amori attraverso i quali non si parla solo d’amore. Non è solo la storia a valere la pena di essere raccontata, ma il modo in cui l’autrice ci conduce al suo interno tramite un mosaico di eventi che così tanto viaggiano nel tempo da perdere il conto degli anni anche noi, e si rimane con il mare come unico punto di riferimento.
Questo è un libro – e mi compiaccio del fatto che sia contemporaneo – in cui il modo di consegnare il contenuto a chi legge è il contenuto stesso, e questo fatto in un romanzo dalla densità di concetti notevole e dalla leggiadria ammirevole.
Qui il tempo si è preso una pausa e ha ritagliato via dal resto il balconcino da cui Antonio si affaccia e guarda l’orizzonte così continuo, così concentrato da essere infinito, e da lettori si ha il privilegio di guardarlo assieme a lui.
Il panorama letterario è sovraffollato di vita a compartimenti stagni, dove se si parla di morte si disseziona un po’ penosamente l’idea che ci si è fatti della morte, e se si parla d’amore si sbuccia l’idea che ci si è fatti dell’amore.
In questo libro ho trovato la bellezza di una scrittura ampia, che non ha paura di amalgamare l’amore e la morte alla vita, nella disarmante consapevolezza della loro indivisibilità.
Quella di Antonio è la storia di un uomo che ama, talmente particolare lui e talmente particolare la storia da non lasciarsi rintracciare nelle nostre vite. Eppure, come per un trucco di magia, Romana Petri parla all’universale raccontando l’unico, e qui sta la forza del suo romanzo, nello stesso modo in cui sta in tutte le storie degne di essere ricordate.
Se potessi parlare con l’autore gli chiederei… Di raccontarmi come sarebbe stata la storia se fosse morto Antonio anziché Lucia. Ma forse non glielo chiederei davvero: di solito se i libri sono scritti come sono scritti c’è una ragione.
Se vi è piaciuto questo libro… Non c’è ragione per cui non dobbiate amare “Il postino di Neruda” di Antonio Skàrmeta. Apparentemente non c’entra nulla e questo consiglio vi sembrerà una distrazione letteraria, ma se c’è una cosa sacrosanta che ho letto in un libro di Susanna Tamaro è che spesso è la distrazione a portare al centro delle cose.